'Sgobbo' in palermitano è lavoro, fatica, salario; ma è anche 'la giornata' della prostituta, con cui il termine raffigura un'attività e la sua pena. E prostituta è Fiona, la voce che racconta come una nenia antica, gli occhi che osservano attoniti, la carne che dolora e sanguina tra lo sperma, le percosse e l'umiliazione. E' venuta dall'Africa nera, imbarcata su una nave, insieme a tante altre, per una sorte non dissimile da quella che una volta destinava i suoi antenati alla schiavitù. Tra i vicoli del porto e i margini di un lungomare di rifiuti, tra le gru dei cantieri abbandonati e sui cofani delle macchine o nella claustrofobia di stanze-bordello, Fiona svolge l'unico mestiere che le è permesso, e intanto descrive la porzione di avvilimento che il suo sguardo abbraccia, parla di se stessa e delle colleghe, dei magnaccia che la spogliano per controllare che non nasconda parte della paga; racconta dei clienti, volti anonimi del desiderio, della solitudine o della brutalità, e degli emarginati, neri e arabi spesso in rissa a contendersi angoli di sopravvivenza. Come già in "Malacarne", anche in questo romanzo si precisa un'ispirazione a un realismo visionario e apocalittico, che rifiuta le coordinate della cronaca e del documento, per una proposta di verità più emblematica; così Palermo, mai nominata eppure naturalisticamente disegnata nelle sue zone di degrado urbano, assurge a metafora di un assoluto, luogo di malessere e di abiezione, che gli uomini occupano, per un'impossibilità esistenziale di riscatto. Calaciura, che ha già stupito con il suo libro d'esordio, affronta ancora una volta un universo perduto e dolente, ma vivido e spietato, coinvolgendo il lettore in vicende che si è soliti conoscere solo distrattamente, superficialmente, e lo fa con un linguaggio poetico ed espressionista di una forza tale che non ha confronto alcuno nella letteratura italiana di oggi.
'Sgobbo' in palermitano è lavoro, fatica, salario; ma è anche 'la giornata' della prostituta, con cui il termine raffigura un'attività e la sua pena. E prostituta è Fiona, la voce che racconta come una nenia antica, gli occhi che osservano attoniti, la carne che dolora e sanguina tra lo sperma, le percosse e l'umiliazione. E' venuta dall'Africa nera, imbarcata su una nave, insieme a tante altre, per una sorte non dissimile da quella che una volta destinava i suoi antenati alla schiavitù. Tra i vicoli del porto e i margini di un lungomare di rifiuti, tra le gru dei cantieri abbandonati e sui cofani delle macchine o nella claustrofobia di stanze-bordello, Fiona svolge l'unico mestiere che le è permesso, e intanto descrive la porzione di avvilimento che il suo sguardo abbraccia, parla di se stessa e delle colleghe, dei magnaccia che la spogliano per controllare che non nasconda parte della paga; racconta dei clienti, volti anonimi del desiderio, della solitudine o della brutalità, e degli emarginati, neri e arabi spesso in rissa a contendersi angoli di sopravvivenza. Come già in "Malacarne", anche in questo romanzo si precisa un'ispirazione a un realismo visionario e apocalittico, che rifiuta le coordinate della cronaca e del documento, per una proposta di verità più emblematica; così Palermo, mai nominata eppure naturalisticamente disegnata nelle sue zone di degrado urbano, assurge a metafora di un assoluto, luogo di malessere e di abiezione, che gli uomini occupano, per un'impossibilità esistenziale di riscatto. Calaciura, che ha già stupito con il suo libro d'esordio, affronta ancora una volta un universo perduto e dolente, ma vivido e spietato, coinvolgendo il lettore in vicende che si è soliti conoscere solo distrattamente, superficialmente, e lo fa con un linguaggio poetico ed espressionista di una forza tale che non ha confronto alcuno nella letteratura italiana di oggi.