Un legame profondo unisce il presente e la Storia, la contemporaneità degli sbarchi dei migranti e l’antico spiaggiare dei navigatori del Mediterraneo. Accanto al volto roseo di un bambino di strada si intravede il putto affrescato di una chiesa, un padre scomparso nel nulla è il soldato che non ha fatto ritorno da una guerra remota. Il presente contiene il passato, e assieme il futuro, ed è questo il tempo dei racconti di Giosuè Calaciura, storie di sogni, di fughe, transiti e arrivi, scanditi dal ritmo profondo dell’acqua che si fa onda e incanto.
«Quando riposo a prua sento il mare che scivola sulle fiancate. Conosco ogni rantolo, ogni muggito, le carezze e gli schiaffi. Una notte ho ascoltato un canto di sirena. Nel dormiveglia sognavo donne di consolazione. Forse struggimenti della solitudine. Ma ascoltando il suono del mare a prua riesco ad anticipare l’arrivo delle perturbazioni». Nel sogno si avverte in anticipo l’attuarsi improvviso di uno sconvolgimento, il sopraggiungere del disordine, di un’infrazione della realtà che sempre irrompe in queste storie di spiagge e di strade, di bambini solitari e visionari che caracollano dietro ai padri, impegnati in attività che sembrano giochi e svaghi ma nascondono tutt’altro. Sono racconti di ragazzi di miniera che diventano un’armata di zombie in fuga per campagne e paesi, a seminare il panico nelle contrade, «divorando ogni forma animale, inseguendo le galline ruspanti e tutti i bipedi da cortile, attaccando alle spalle i maiali e i muli, mordendo al collo i cani increduli, risparmiando solo i gatti». Oppure vicende di desideri e sciagure: quella di un soldato che intravede in caserma una ragazza bella «come la giovinezza sfregiata a piccoli morsi dai tarli della vita… pallida a causa del colore opalino del cielo», e la va a trovare a casa, «giocando al dottore come non aveva mai fatto», sino a sfidare il destino. O quella di un ragazzino che ha perso il padre e lavora nel bar dello zio, dove incontra uno strano bambino più piccolo di lui, Nunzio, che «nonostante il calore di giugno portava un berretto di lana verde, non se lo levava mai, aveva le sopracciglia gonfie e senza peli».
In una lingua onirica, capace di far baluginare il miraggio di una favola e fondere barocco e modernismo, astrazione e brutalità, i racconti di Calaciura narrano una realtà insieme dolce e durissima, ingenua e depravata, che solo può sciogliersi e decantare nell’ardente delirio della fantasia e dell’invenzione.
Un legame profondo unisce il presente e la Storia, la contemporaneità degli sbarchi dei migranti e l’antico spiaggiare dei navigatori del Mediterraneo. Accanto al volto roseo di un bambino di strada si intravede il putto affrescato di una chiesa, un padre scomparso nel nulla è il soldato che non ha fatto ritorno da una guerra remota. Il presente contiene il passato, e assieme il futuro, ed è questo il tempo dei racconti di Giosuè Calaciura, storie di sogni, di fughe, transiti e arrivi, scanditi dal ritmo profondo dell’acqua che si fa onda e incanto.
«Quando riposo a prua sento il mare che scivola sulle fiancate. Conosco ogni rantolo, ogni muggito, le carezze e gli schiaffi. Una notte ho ascoltato un canto di sirena. Nel dormiveglia sognavo donne di consolazione. Forse struggimenti della solitudine. Ma ascoltando il suono del mare a prua riesco ad anticipare l’arrivo delle perturbazioni». Nel sogno si avverte in anticipo l’attuarsi improvviso di uno sconvolgimento, il sopraggiungere del disordine, di un’infrazione della realtà che sempre irrompe in queste storie di spiagge e di strade, di bambini solitari e visionari che caracollano dietro ai padri, impegnati in attività che sembrano giochi e svaghi ma nascondono tutt’altro. Sono racconti di ragazzi di miniera che diventano un’armata di zombie in fuga per campagne e paesi, a seminare il panico nelle contrade, «divorando ogni forma animale, inseguendo le galline ruspanti e tutti i bipedi da cortile, attaccando alle spalle i maiali e i muli, mordendo al collo i cani increduli, risparmiando solo i gatti». Oppure vicende di desideri e sciagure: quella di un soldato che intravede in caserma una ragazza bella «come la giovinezza sfregiata a piccoli morsi dai tarli della vita… pallida a causa del colore opalino del cielo», e la va a trovare a casa, «giocando al dottore come non aveva mai fatto», sino a sfidare il destino. O quella di un ragazzino che ha perso il padre e lavora nel bar dello zio, dove incontra uno strano bambino più piccolo di lui, Nunzio, che «nonostante il calore di giugno portava un berretto di lana verde, non se lo levava mai, aveva le sopracciglia gonfie e senza peli».
In una lingua onirica, capace di far baluginare il miraggio di una favola e fondere barocco e modernismo, astrazione e brutalità, i racconti di Calaciura narrano una realtà insieme dolce e durissima, ingenua e depravata, che solo può sciogliersi e decantare nell’ardente delirio della fantasia e dell’invenzione.